8 novembre 2016 Election Day: il conto alla rovescia
C’è chi i voti li ha già contati e sta già pensando al 2020: in almeno tre villaggi del New Hampshire, la tradizione vuole che la gente si riunisca al seggio alla mezzanotte locale, voti e immediatamente spogli i pochi suffragi. A Dixville, Hillary Clinton ha battuto Donald Trump per 4 voti a 2. Invece a Millsfield Trump ha surclassato la Clinton, 16 a 4. A Hart's Location, infine, la località più grossa, s’è imposta l'ex first lady: 17 a 14.
Ma il computo complessivo è risultato a favore del magnate: 32 a 25. Inutile, però, cercare di trarre auspici da questi dati: in passato, qui s’è votato in modo erratico, una volta ci prendono e una volta no, fanno curiosità più che statistica. Quelli di Dixville pretendono di essere dei kingmakers, perché fecero la scelta vincente per tre volte di fila dal 2000, ma nel 2012 s’impantanarono in un pari 5 a 5 tra Barack Obama e Mitt Romney: addio al filotto.
La legge del New Hampshire prevede che i comuni con meno di 100 abitanti possono votare fin dalla mezzanotte: i seggi vengono chiusi non appena tutti gli aventi diritti hanno votato. Altrove, non succede. E, infatti, la giornata elettorale vera e propria di Usa 2016 è cominciata sulla Costa Est all’alba – a metà giornata, ora italiana – e si concluderà in Alaska, quando, molto probabilmente, sarà già noto il nome del 45° presidente degli Stati Uniti.
Rispetto alle folcloristiche abitudini dei paesini del New Hampshire, nel computo dei voti finale peseranno molto di più quelli espressi in anticipo, almeno 24 milioni - forse saranno una trentina alla resa dei conti -: in Florida, in Arizona, in Nevada, i protagonisti dell’ ‘early voting’ sono stati soprattutto gli ispanici, un segnale positivo per la Clinton, perché i ‘latinos’ di sicuro non votano Trump.
Pure di buon auspicio per Hillary le code ai seggi che vengono segnalate a Filadelfia e altrove, soprattutto negli Stati in bilico – tre i cruciali, la North Carolina, l’Ohio e la Florida -. Si pensa infatti che l’alta affluenza penalizzi Donald, il cui potenziale bacino elettorale è demograficamente ed etnicamente più ridotto di quello della rivale.
I due candidati alla Casa Bianca hanno entrambi votato a Chappaqua e a New York e hanno poi atteso i risultati poco distanti l’uno dall’altro. Trump con i suoi familiari e i suoi fedelissimi nel ‘fortino’ allestito nella Trump Tower, da dove giornalisti e televisioni non americane sono stati cacciati: il magnate s’è ‘barricato’ nel lussuoso appartamento stile Luigi XVI all’ultimo piano, con una vista mozzafiato su Central Park.
Il clan dei Clinton è installato all’Hotel Peninsula, ad appena un isolato di distanza, sulla 5a Strada: Hillary è circondata da familiari e dal cerchio magico dei suoi collaboratori.
Il magnate e l’ex first lady non hanno previsto sortite o bagni di folla. L’appuntamento con fan e media è dopo che i voti saranno stati contati: Hillary al Javits Center, lungo sull’Hudson, dove l’ex first lady spera di rompere metaforicamente il soffitto di cristallo – il centro ha proprio un soffitto di cristallo enorme -; Trump all’Hilton Hotel Midtown, dove l’ showman spera di pronunciare il discorso della vittoria.
Ma entrambi, probabilmente, hanno pure lavorato, magari scaramanticamente, al discorso d’accettazione della sconfitta, ammesso che, nel caso, il magnate lo voglia pronunciare, dopo avere denunciato, fino all’ultimo, brogli ai suoi danni e sondaggi falsati per scoraggiare i suoi sostenitori. Donald jr, il figlio, che ha fatto più gaffe del padre in questa campagna, s’è fatto scappare che papà non punterà i piedi: se perde, ci sta. (gp)
La notte prima del voto è piena di stelle per Hillary Clinton e piena di rabbia per Donald Trump. Fra poche ore, i seggi si apriranno sulla East Coast e poi in tutta l’Unione: l’America vota e sceglie il suo 45° presidente, forse per la prima volta una donna.
La candidata democratica finisce in fanfara: sul palco, con lei, al comizio di chiusura a Filadelfia, il marito Bill e la ‘coppia d’assi’, il presidente Obama con la first lady Michelle, ma pure Springsteen e Bon Jovi, che – dice – “sono repubblicano, ma voto Hillary”. Madonna, invece, improvvisa un’esibizione al Washington Square Park di New York per incitare la gente ad andare a votare per l’ex first lady.
Il magnate e showman chiude tra Michigan e Pennsylvania: ''I comizi della Clinton con le star della musica umiliano la politica'', dice, a rischio di parerne invidioso. E a Scranton sfodera la retorica di sempre: "Hillary Clinton è il volto del fallimento, è la lunga mano di Wall Street, d’interessi di parte e dei suoi stessi interessi. Ora è il momento di cambiare davvero".
Finisce in calando la campagna di Trump, che ha il fiato corto, dopo una settimana tra rimonta e speranze: sciorina slogan che sanno già di recriminazione (“Hillary non doveva neppure correre”).
Hillary, invece, parla già da (quasi) presidente: “Voglio unire il Paese, basta con le divisioni”, dice, mentre le centenarie d’America, quelle già nate quando le donne, nel 1920, ebbero il diritto di voto, si preparano ad andare alle urne per lei. Lavorare insieme è il suo ‘leit motiv’ dell’ultimo comizio: ci pensano Barack e Bill a picconare il rivale repubblicano, che “non è qualificato” ed è “una mina vagante”.
C’è chi descrive Trump incapace di dormire negli ultimi, sempre ansioso che qualcuno lo rassicuri. Lo staff gli avrebbe tolto la gestione di Twitter, per impedirgli messaggi avventati. Obama ironizza: “Non sa gestire Twitter, figuriamoci l’atomica”. E aggiunge: “Hillary lavorerà, non manderà solo tweet”.
Sembra una scena da ‘day after’. Ma i giochi non sono ancora fatti. E c’è chi arzigogola sull’ipotesi che non lo siano neppure questa notte negli Stati Uniti, all’alba di domani qui da noi: la corsa potrebbe restare in bilico se un candidato sconosciuto alla stragrande maggioranza degli americani, Evan McMullin, mormone, un passato da agente segreto, un presente da repubblicano anti-Trump, dovesse imporsi nello Utah dei mormoni.
E’ un’ipotesi surreale, come surreale è stata buona parte di questa campagna, mediaticamente dominata dai tweet e dagli insulti di Trump, mentre i discorsi e i programmi della Clinton non bucavano né lo schermo né i social. Il confronto s’è articolato in una contrapposizione di scandali, più che di proposte: l’emailgate e le tasse eluse, la Clinton Foundation e la Trump Foundation, le storie di donne di Bill e quelle di Donald.
La più vecchia e più potente democrazia occidentale merita meglio degli slogan di Trump, il muro e le deportazioni per l’immigrazione, il ‘cavallo di troia’ per l’Islam, ‘law and order’ per la sicurezza. Ma i piani della Clinton non hanno mai fatto titolo.
Il finale di partita ha poi visto l’Fbi protagonista: a dieci giorni dall’Election Day, ha riaperto, battendo la grancassa, un’inchiesta, archiviata a luglio, contro Hillary, per l’emailgate, cioè l’utilizzo di un account privato quand’era segretario di Stato invece di quello ufficiale; a due giorni dal voto, in sordina, l’ha richiusa, confermando il ‘non luogo a procedere’, ma lasciando in tutti l’impressione che non ci sia stato il tempo per vagliare la massa di mail disponibile. Insomma, peggio la tappa del buco, per la credibilità dell’Fbi: da domani, si regoleranno i conti.
Ieri, per tutta la giornata, i sondaggi si sono succeduti, concordi: la democratica è avanti, di poco, nelle intenzioni di voto a livello nazionale. Nel computo dei Grandi Elettori, Hillary è sotto la soglia dei 270 sicuri, ma è molto avanti a Donald. Sul sito di Fivethirtyeight.com, le chances di Trump, risalite dal 12,5 al 37%, ridiscendono al 31%.
Un indicatore è significativo: quasi per la prima volta, ci sono sui media più titoli per la Clinton che per Trump. La stampa Usa non ha bisogno di salire sul carro del vincitore, perché la scelta di campo pro – Hillary l’ha fatta da tempo, ma incomincia a sottrarsi alla bulimia di notizie sul magnate. Ed è boom delle scommesse sulla vittoria dell’ex first lady: si vince poco, ma non si perde niente.
Se verso le 2 del mattino si vedrà in tv la mappa dell’Unione tingersi tutta di blu democratico in alto a destra, dal New England alla Pennsylvania fin giù alla Virginia, vorrà dire che i giochi per Hillary saranno quasi fatti: per diventare la prima donna presidente degli Stati Uniti, le basterà vincere almeno uno dei tre Stati in bilico per antonomasia di Usa 2016, la North Carolina, dove pesa il voto nero, la Florida, dove pesa il voto ispanico, e l’Ohio dove pesa il voto di quelli che una volta erano gli operai del manifatturiero e che ora non hanno lavoro.
Oggi, non si vota solo per il presidente e il vicepresidente. Si rinnova parzialmente il Congresso: tutta la Camera, 435 seggi – oggi, 247 repubblicani e 188 democratici -, e un terzo del Senato, 34 seggi – 24 repubblicani e 10 democratici - su 100 – oggi, 54 repubblicani, 44 democratici e due indipendenti che votano per lo più democratico –, oltre a 12 governatori - sette democratici e cinque repubblicani - su 50. I democratici possono riconquistare il Senato, i repubblicani possono conservare la maggioranza alla Camera. Ci sono, inoltre, migliaia di consultazioni statali e locali e molti referendum statali e locali. (gp)
A sorpresa come l’aveva riaperta, l’Fbi chiude l’inchiesta sulle mail di Hillary Clinton: non ci sarà nessuna richiesta di rinvio a giudizio per la candidata democratica alla Casa Bianca, valgono - scrive il direttore James Comey, in una nuova lettera al Congresso - le conclusioni già raggiunte a luglio, "Non le abbiamo cambiate".
Dopo una settimana di fibrillazioni, la bomba della riapertura dell’inchiesta si rivela un petardo: esulta la Clinton, protesta il suo rivale Donald Trump, tirano un sospiro di sollievo i mercati, mentre i sondaggi, indipendentemente dall’annuncio dell’Fbi, già segnalavano un rimbalzo dell’ex fist lady dopo una settimana di flessione.
Nella lettera al Congresso, Comey spiega come la revisione delle email di Hillary Clinton - quelle trovate nel corso dell'inchiesta su Anthony Weiner, ex marito della fedelissima assistente di Hillary, Huma Abedin - sia stata completata: l'indagine va considerata chiusa perché non é stato trovato alcun illecito. Resta il dubbio di come un’inchiesta su così tante mail abbia potuto essere condotta in modo accurato in così poco tempo.
A luglio, l'Fbi aveva chiuso un lavoro di mesi sull’emailgate, cioè sull’utilizzo di un server privato da parte della Clinton quando era segretario di Stato, affermando che, al di là della leggerezza e dell’imprudenza di tale comportamento, non c'erano gli estremi per un rinvio a giudizio.
Le reazioni di Hillary e di Donald - Una vera e propria ovazione ha accolto a Cleveland, in Ohio, Hillary Clinton, che è salita sul palco dell’ennesimo comizio in uno Stato cruciale per la conquista della Casa Bianca pochi minuti dopo la breaking news sulla decisione dell'Fbi di chiudere l’inchiesta sulle mail senza conseguenze per lei.
Al fianco dell'idolo locale, la star della Nba LeBron James, Hillary non ha commentato la notizia, ma il suo sorriso esprimeva gioia e sollievo dopo giorni di ansia e tensione.
Della decisione dell’Fbi ha invece parlato Donald Trump, che faceva un comizio a Minneapolis: "E' un sistema truccato. E Hillary Clinton è protetta", ha detto. Più tardi, a Sterling Heights, Michigan, il magnate ha aggiunto: “Ora tocca agli americani fare giustizia nelle urne … La Clinton è colpevole: lei lo sa, l'Fbi lo sa e la gente lo sa".
Per Trump, "E' incredibile che si possano esaminare 650 mila email in otto giorni. C'è un sistema totalmente falsato". In effetti, appare sorprendente la rapidità dell’indagine, a fronte della quantità di materiale da esaminare, che, però, non è mai stata oggetto di dichiarazioni ufficiali, ma solo d’illazioni giornalistiche.
Le reazioni dei mercati - Wall Street, che venerdì aveva chiuso una settimana molto fiacca, sotto l’incubo di una rimonta di Trump sulla Clinton, ha subito reagito bene alla notizia della chiusura dell’inchiesta dell’Fbi: tutti gli indici future hanno accelerato nella serata di domenica, il Dow Jones ha guadagnato oltre 200 punti e l'S&P500, reduce dalla serie negativa più lunga dal 1980, ha avuto un netto recupero.
L’effetto positivo s’è esteso ai mercati asiatici, dopo Tokyo ha chiuso in netto rialzo. Shanghai non è stata invece contagiata e ha chiuso in lieve calo.
C’è stato un effetto Fbi anche sul peso messicano, vero e proprio termometro di questa campagna elettorale statunitense dominata dal tema immigrazione. La valuta messicana è schizzata verso l'alto, guadagnando il 2,2% sul dollaro, dopo giorni di calo in parallelo con la risalita nei sondaggi di Trump.
I sondaggi della domenica – Ancora prima dell’annuncio dell’Fbi, i sondaggi registravano, domenica, a 48 ore dal voto, un rimbalzo della Clinton. Secondo il quotidiano aggiornamento Abc/WP, l’ex first lady è tornata avanti di cinque punti sul suo rivale, 48 a 43%. Il rilevamento Politico/Morning Consult la dà in vantaggio di tre punti, 45 a 42%; e quello Nbc/WSJ di quattro, 44 a 40%. (fonti vv – gp)
Io spero che vinca Hillary e ho il terrore che vinca Trump. Esattamente come la vigilia del referendum sulla Brexit: speravo vincessero i ‘remain’ e avevo il terrore che vincessero i ‘leave’, com’è ahimè puntualmente successo.
Attenzione!, però. Io non sono di quelli che spero che vinca Hillary perché e la meno peggio dei due e che, se fossi americano, la voterei turandomi il naso; né mi passerebbe neppure per la testa di votare per uno dei candidati alternativi, il libertario Johnson, che saprà fare crescere una piantina di marijuana, ma ignora dove si trova Aleppo e non sa citare neppure il nome di un leader estero, o la verde Stein, che considero alla stregua di un voto disperso (e già ci sono costati cari, all’Occidente e al Mondo, quelli dispersi nel 2000 per Nader, che fecero vincere la Florida e la Casa Bianca a Bush jr).
Io considero Hillary Clinton preparata, esperta, competente e, come presidente e comandante in capo, affidabile: una secchiona che studia a casa e fa bene nei compiti in classe. Certo, non ha il carisma dell’Obama candidato. E ha nei e difetti: è donna di potere; ha aderenze “cospicue” per usare una citazione che, oltre che al Conte Zio, s’adatta allo sposo Bill; ha scheletri nell'armadio e opacità in bella mostra; e non è simpatica, comunicativa, empatica, né ha la battuta che spiazza.
Ma leader con tutte queste doti, e senza competenza ed esperienza, né l’umiltà per studiare dossier e problemi, ce ne siamo già permessi troppi a casa nostra: non possiamo concedercene in America, perché c’è in gioco il Mondo, non solo il nostro benessere. Hillary significa un mandato senza sogni e utopie. Ma Trump, che ha ora l’inerzia a favore, significa sette anni di disgrazie, anche se saranno solo quattro. (gp)
Le chiamano ‘dinastie americane’. Ma non sono fatte d’intrecci e di somme di quarti di nobiltà. Sono fatte di accumuli di soldi, se si chiamano Rockfeller, o Vanderbilt, e di potere, partendo, comunque, dai soldi, che c’entrano sempre, se si chiamano Kennedy o Bush. E i Clinton? Quelli, per il momento, sono solo una famiglia, non (ancora?) una dinastia – lo diventeranno se Chelsea saprà farsi valere, ma c’è tempo e ci sono dubbi -.
Intendiamoci: non che le dinastie europee fossero diverse, ai loro albori. Ma il trascorrere dei secoli offusca il passato di ruberie e soprusi che spesso sta alla base di ricchezza e nobiltà.
I Clinton sono i Blythe - Basta risalire l’albero genealogico di Bill, l’ex presidente, per capire che, lì, di dinastico non c’è nulla e di ereditario c’è ben poco – quanto a eredità, zero -: la storia di Bill è quella dei Blythe, una famiglia di origini scozzesi e inglesi, della cui presenza in America vi sono tracce fin dai tempi delle 13 Colonie e della Guerra d’Indipendenza; Clinton è un cognome adottivo.
Del bisnonno Henry Patton Foote Blythe si sa che nacque a Tippah, nel Mississippi, terra di cotone e allora di schiavi, il 18 settembre 1851 e lì morì il 3 luglio 1898, dopo avere avuto come figlio William Jefferson Blythe Sr (1884-1935), che si trasferì in Texas e, lavorando i campi a Sherman, ebbe con la moglie Lou Birchie Ayers (1893-1946) nove figli.
Uno di questi, William Jefferson ‘Bill’ Blythe Jr (1918-1946), si sposò quattro volte, ebbe pure figli di cui perse le tracce e la memoria, dopo le ultime nozze con Virginia Dell Cassidy (1923-1994), si trasferì a Hope in Arkansas: face la guerra in Egitto e in Italia e, al ritorno in patria, riprese il lavoro di commesso viaggiatore. Morì in un incidente stradale tre mesi prima della nascita di William Jefferson Blythe III.
Allevato a Hope dai nonni materni Eldridge ed Edith Cassidy, due bottegai, mentre la mamma andava a New Orleans per diventare infermiera, il bimbetto divenne Bill Clinton nel 1950, quando Virginia si risposò con Roger Clinton, che possedeva una concessionaria automobilistica e che l’adottò.
I Bush: un nonno che conta – La storia americana dei Bush risale a Timothy Bush e a sua moglie Deborah House: vivevano a Lebanon nel Connecticut tra il ‘700 e l’ ‘800, ebbero quattro figli. Timothy jr faceva il fabbro a Rochester, nello Stato di New York: morì nel 1850, a 84 anni.
Dal matrimonio con Lydia Newcomb nacque Obadiah Newcomb Bush (1797-1851), commerciante, morto in mare tornando nel New England dalla California. Obadiah sposò Harriet Smith: loro figlio James Smith Bush, 1825-1899, fu ministro della Chiesa episcopale. Dal suo matrimonio con Harriet Eleanor Fay, nacque Samuel Prescott Bush (1863-1949), che sposò Flora Sheldon. Prima dirigente delle ferrovie, poi presidente di un’azienda siderurgica, infine, nella Seconda Guerra Mondiale, incaricato di assistere e coordinare le industrie fornitrici delle forze armate, Samuel s’installò nell’Ohio.
E qui veniamo al sodo: già s’intravvede l’evoluzione della famiglia, che era stata fin qui piccolo borghese. Il salto di qualità definitivo, verso la ricchezza e il potere, lo fece il figlio di Samuel e Flora, Prescott Sheldon Bush, padre e nonno di un presidente degli Stati Uniti, nato a Columbus (Ohio) nel 1895, laureato aYale in quella che stava già diventando una tradizione familiare, capitano di artiglieria nella Prima Guerra Mondiale sul fronte francese, dove partecipò all’offensiva lungo la Mosa e l’Argonne, poi imprenditore di successo e infine senatore repubblicano dello Stato del Connecticut per due mandati, dal 1952 al 1963, quando erano presidenti il generale Eisenhower e John f. Kennedy. Prescott morì nel 1972 a New York.
La famiglia era ormai solidamente impiantata nell’economia e nella politica americana. A farla diventare dinastia – ma questo è storia recente – avrebbero poi pensato figli e nipoti di Prescott.
Un figlio, George H.W. Bush, che si trasferì in Texas, spostò l’attività dall’acciaio al petrolio, fu dirigente della Cia, ambasciatore in Cina, vice-presidente degli Stati Uniti per otto anni sotto Ronald Reagan e poi presidente dal 1989 al ’93, quando la dinastia Bush incrociò per la prima volta la famiglia Clinton. Un nipote, figlio di George H.W., George W. Bush, è stato a sua volta presidente dal 2001 al 2009, nonostante la tempra familiare segnali qualche appannamento nell’attuale generazione.
I Kennedy: dall’Irlanda con principi – Dei Kennedy, tutti sanno tutto: troppo raccontati da oltre mezzo secolo in qua, perché se ne possa scoprire qualcosa. Irlandesi di origine, bostoniani d’insediamento, cattolici, escono dall’anonimato con Patrick J. Kennedy, 1858-1929, e Mary Augusta Hickey, i nonni del presidente. Commerciante, esercente, importatore di successo, Patrick, democratico, fu a più riprese deputato e senatore dello Stato del Massachusetts.
Ma il vero patriarca è il figlio primogenito Joseph P. Kennedy Sr.(1888–1969), che sposò la figlia del sindaco di Boston Rose Fitzgerald (1890-1995): ambasciatore degli Stati Uniti nel Regno Unito fra il 1938 e il 1940, ebbe importanti incarichi nell’America rooseveltiana che tentava di uscire dalla Grande Depressione. La loro residenza estiva di Hyannis Port divenne centro di riferimento e d’influenza per tutta l’Unione.
Joe e Rose ebbero nove figli: fra di essi, eroi di guerra, presidenti, martiri della democrazia, senatori per molti mandati. E, ad alimentare la leggenda, c’è la maledizione, che vuole i Kennedy, belli, forti, potenti, spesso al centro di tragedie e di morti premature. Il patriarca Joseph, prima di morire, vide cadere uccisi i suoi tre figli maschi maggiori: Joe in guerra, John e Robert uccisi in attentati, uno a Dallas, l’altro a Los Angeles. (gp)